Cosa succede oggi?

 
 
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...la Grande Promessa di Progresso Illimitato – vale a dire la promessa del dominio sulla natura, di abbondanza materiale, della massima felicità per il massimo numero di persone e di illimitata libertà personale
— ERICH FROMM, AVERE O ESSERE? , 1976
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come ci siamo ammalati

Non solo ci è stato detto TINA, ossia “There Is No Alternative” rispetto al capitalismo globale. Ma ad oggi, questa concezione si è insinuata nelle nostre vene e nelle nostre ossa, è ormai incorporata nelle nostre menti, come un plug-in “non sovrascrivibile”. Un uomo che pensa al di fuori del Box del Consumismo, è considerato un Unreasonable Man (G.B. Shaw).

Non siamo più capaci di concepire un mondo differente da quello in cui viviamo e apparentemente, nemmeno vogliamo farlo.
Oppure semplicemente abbiamo dimenticato che esistono alternative?

 
 

Siamo stati avvertiti in passato delle potenziali falle di questo sistema, ma non abbiamo voluto considerare gli ammonimenti nemmeno per un secondo. Abbiamo deliberatamente distolto lo sguardo da coloro che ci messo in guardia più volte, con diversi rapporti, come quello sui Limiti dello Sviluppo.

Questo perché la brama di oltrepassare quegli stessi limiti e il nostro desiderio di procedere per una crescita infinita, sono state forze motrici molto profonde e più forti della prudenza e dell’attenzione che andava messa in campo.

Siamo passati dalle comunità locali ad un Villaggio Globale. In tal modo, abbiamo perso le nostre specificità, omologando progressivamente tutti i nostri desideri, luoghi, ambizioni, valori e immaginari senza una reale consapevolezza che ciò stesse accadendo. Con l’obiettivo di raggiungere la felicità e la soddisfazione promesse dal sistema capitalistico, abbiamo dimenticato le nostre origini.

Ora ci ritroviamo ad essere iper-standardizzati e dobbiamo affrontarlo.

 

Lavora, Produci, Consuma

Dunque questa nuova società globale ha deciso comunemente di votarsi all’eterna Crescita, all’eterno Progresso. Una crescita non tanto votata ad aspetti etici, quanto più meramente pratici e tecnici.

Essere la nazione più ricca e produttiva, il popolo con più risorse e la persona con più beni sono diventati i nuovi idoli da adorare e perseguire. Per alimentare questa gigantesca macchina, guidati da forze addensanti e centripete, abbiamo messo in piedi un ciclo eterno e chiuso, continuamente passando da uno stato della catena produttiva all’altro, senza mai poterci fermare.

E allora abbiamo cominciato ad orbitare tutti nella stessa direzione, oleando diligentemente gli ingranaggi, conniventi della realizzazione di questo disegno che ci ha intrappolati in uno vortice senza apparente via d’uscita.

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CI SIAMO VOTATI AD UNA NUOVA POTENTISSIMA RELIGIONE: IL LAVORO.

Nel corso degli ultimi cinquant’anni abbiamo costruito un mondo sempre più umanizzato, innalzandoci sopra ad ogni cosa. 

Abbiamo creato megalopoli dal nulla, fortezze umane che hanno progressivamente esiliato la natura, relegandola fuori dalle nostre mura. Il concetto di Lavoro, posto alla base della catena di produzione globale ha emanato la sua aura, diffondendosi in tutto il mondo e pervadendo ogni ambiente. Come ogni religione, anche questa ha visto la nascita delle proprie divinità e idoli

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Così è stata creata la figura archetipica del lavoro: la Carriera. Punto d’inizio e di fine, concretizzazione dello spirito lavorativo al massimo della sua potenza e devozione. Fa riflettere che il termine “carriera” sia stato mutuato dall’ambito semantico del movimento, nello specifico quello della velocità. “Andare di gran carriera” deriva dall’andatura più veloce del cavallo. O ancora, si ricollega a carraria, quella strada che nei villaggi d’un tempo era dedicata ad ospitare, negli incavi ricavati al suolo, le ruote del carro trainato dai cavalli, in modo che potessero procedere svelti e rapidi, senza incontrare ostacoli, facilitati nel movimento. 

Alla stessa maniera, ci siamo affrettati nel costruire sistemi che ci permettessero di prendere parte al grande ciclo rituale di produzione: Lavora, Produci, Consuma

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In questo modo la grande ruota del mondo ha acquistato ancora più velocità, produrre di più e più in fretta, inseguire un guadagno sempre più alto, illudendosi di raggiungere una maggior soddisfazione personale e una felicità più profonda. Abbiamo velocizzato il tempo, pianificato ogni singolo momento di ogni singolo giorno per essere iper-produttivi.  Abbiamo deciso di basare le nostre identità non più sulle nostre attitudini, sul nostro carattere o sulla nostra indole ma sul titolo che abbiamo attribuito a noi stessi, attraverso il nostro lavoro.

Ci siamo lasciati pervadere così tanto da questo meccanismo che abbiamo creato anche dei percorsi dogmatici in nome del Lavoro. Gli straordinari sul lavoro sono passati da dover essere l’eccezione a rappresentare, non solo la norma, ma una pratica da sostenere, se non idolatrare. Questo genere di interpretazioni stanno dietro al sistema lavorativo 996.

Ci siamo dimenticati che siamo esseri umani e non esseri lavoranti, ma soprattutto che ciò che ci rende felici nella vita è raggiungere uno scopo e non avere un lavoro. Più spesso di quanto crediamo le cose non si equivalgono.

 

L’UOMO HA BISOGNO DI UNO SCOPO, NON DI UN LAVORO

In una società sempre più veloce e frenetica, la sfida si è spostata dal presente all’istante.

La differenza la si fa nell’iper-connessione e nel saper rispondere ai continui input che si ricevono, in modo immediato e altrettanto rapidamente, generarne a propria volta.

Nel mondo disegnato dal consumismo ogni momento deve essere sfruttato e consumato, portandolo al minimo, nel minor tempo possibile. Ogni momento deve fruttare al massimo in modo da poter offrire la gratificazione necessaria ad alimentare il processo.Abbiamo trasformato la nostra idea di tempo, non più lineare, non più ciclico ma puntillistico.
Ognuno di noi vive il tempo in maniera puntillistica, come lo definiva Z. Bauman. Ossia un tempo non più circolare o lineare dove si ha una successione di eventi e momenti, anche vuoti, che non devono essere riempiti per forza. Ad oggi, ogni istante deve essere vissuto come se contenesse una vita intera. Ogni momento, ogni giorno deve darci il massimo. Lì abbiamo inconsapevolmente posto le nostre aspettative.

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Se continuassimo esclusivamente a produrre in maniera ininterrotta, esauriremmo noi stessi e la nostra potenza produttiva subirebbe un arresto.
Per questo sono stati messi in campo strumenti di svago che rispecchiano, alla stessa maniera di come fagocitiamo la realtà, i nostri bisogni di immediatezza. Sistemi di notifiche immediate ci avvisano riguardo ogni micro-cambiamento all’interno delle nostre communities o echo chambers, in modo da poter essere sempre aggiornati.

Che ne abbiamo bisogno o no, i nostri adorati software sono sempre lì, a portata di mano, inseparabili dalla nostra persona, spesso a tirarci per la camicia. Ormai è comprovato da diversi studi (qui un esempio) che il nostro livello di attenzione sia perennemente dimezzato. Questo succede perché una metà è perennemente dedicata a percepire le attivazioni del nostro smartphone. Non è un caso che nascano disordini comportamentali come la screen addiction o neologismi come JOMO e FOMO. 

La continua sete di novità, indotta da questo genere di sistema, ci ha portati ad essere maniacalmente neofili, alimentando, in questo modo, la spirale di realtà nella quale siamo immersi.
Dopo tutto questo viene da chiedersi - se davvero benessere e felicità risiedessero in questo mondo, dove ogni bisogno è generato ed estinto quasi nello stesso istante, allora perché le società che lo adottano sono considerate tra le più infelici? -

 
 

La grande opportunità

La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati.
— Antonio Gramsci

La frase è parte degli scritti di Gramsci, il quale nel momento della stesura si trovava prigioniero nelle carceri del regime fascista. Con ogni probabilità si riferisce a quella situazione di stallo e stasi, nella quale il mondo in cui si vive non trova la forza per dare il colpo di reni necessario a voltare pagina. Quel genere di processo trasformativo che accende nuove luci. Non inteso esclusivamente come futuro ricco di speranze, ma che cerca alternative all’interno di un presente che mostra in maniera evidente le sue enormi falle ideologiche. Novant’anni dopo, ci troviamo a dover affrontare la stessa sfida nel campo dell’immaginazione

E se fino ad inizio 2020 il mondo non sembrava accennare ad un reale e concreto cambiamento, da marzo, per la prima volta, il globo intero ha smesso di girare. Per la prima volta, da quando è stata creata la macchina produttiva delle società moderne, tutti i suoi ingranaggi hanno cominciato progressivamente ad incepparsi e bloccarsi definitivamente tutti, alla stessa maniera.
Da più di vent’anni tutti ci aspettavamo un attacco digitale, una cyber-minaccia globale (il famoso Millennium bug) e invece ciò che ha messo in scacco tutte le società più evolute e sofisticate del 2020 è stata una forma di vita primordiale

Così ci siamo ritrovati immersi in una bolla, tutto è in stasi. Ma possiamo operare su questa realtà, possiamo davvero trasformare tutto questo in un’opportunità. 

 

 
 
 

CHE MONDO VORREMMO TROVARE QUANDO TUTTO QUESTO FINIRÀ?

 
 

Di fronte a noi si prospetta fondamentalmente un bivio: da un lato possiamo tornare a come eravamo, alla narrativa del mondo pre-pandemia, ristabilendo i classici equilibri basati sull’iper-consumo delle risorse energetiche mondiali e umane. Riprendere le vite di sempre.

Dall’altro troviamo un racconto differente, alternativo. Basato su un futuro in cui l’uomo impara dai suoi errori e si evolve. Un uomo che comprende il vero peso della sua biologia, non considerandola come una vulnerabilità da migliorare, un uomo che ristabilisce i suoi confini (anche e soprattutto mentali). I greci direbbero κατὰ μέτρον (katà métron), che significa “secondo misura”.
Un’umanità che non si considera alla stregua delle divinità, che non brama plasmare la natura del mondo (fisico e psichico), che abitandolo lo rispetta.

Si potrebbe definire allora un popolo globale, una “Communauté du destin terrestre”, che si concepisce come tale, che comprende e accetta realmente che nella diversità risiede la ricchezza, che abita il medesimo luogo e che, come questa emergenza ci ha dimostrato, realizza di essere parte di un’unica identica umanità. L’uomo potrebbe essere definito soprattutto come spirito, potremmo definirlo come un’idea. La vita stessa può essere concepita come un incredibile viaggio che compiamo con le nostre menti.


Allora occorre riflettere su questa nostra condizione di oggi. Su come siamo arrivati fin qui, pensando e creando alternative ad un mondo che tanto si è allontanato dai tratti primordiali che definiscono il DNA dell’uomo: la sua caducità, fallacia, semplicità, frugalità e lentezza.
Questi tratti sono spesso considerati poco sofisticati, deficienti se non addirittura rozzi. Noi oggi preferiamo affidarci al cinismo del profitto e del consumo repentino ed indiscriminato. Molto spesso però nel momento in cui accettiamo la nostra profonda natura, e la seguiamo con animo sincero, troviamo allora tutto ciò di cui abbiamo bisogno e questo ci basta, vivendo κατὰ μέτρον.

Bisogna mettere in atto una una transizione sostenibile ad un mondo alternativo, non osteggiando il progresso e le innovazioni globali, ma imbracciandole e dirigendole verso società che si basino su visioni olistiche d’ampio respiro, su di un intrinseca aumentata complessità e su nuove applicazioni democratiche che tengano conto dei paradossi e della reale natura del mondo che abitiamo.

OCCORRE INVESTIRE SU UNO SPIRITO GLOBALE